“A che servono questi quattrini” è una commedia di Armando Curcio messa in scena per la prima volta nel 1940 dalla compagnia dei De Filippo con grande successo di pubblico.
La vicenda ruota intorno al Marchese Parascandolo, detto il Professore, che per dimostrare le sue teorie socratiche, bizzarre e controcorrente, ordisce un piano comicamente paradossale che svela l’inutilità del possesso del denaro.
Il Marchese offre tutto il suo appoggio, dando il suo sostegno speculativo, a Vincenzino, ricco solo del suo entusiasmo e della sua ingenuità e lo aiuta a capovolgere il suo destino di ultimo accompagnandolo in una rapidissima ascesa sociale.
Una favola? Un sogno ad occhi aperti? Può darsi.

Ma i temi dell’inutilità del denaro e della dannosità del lavoro, benché calati nella realtà di due famiglie napoletane degli anni ’40, una poverissima l’altra in apparenza arricchita, riescono, sul filo del paradosso, a incuriosirci ad aprirci nella fantasia strade alternative e a divertirci.

Bolle finanziarie, truffe internazionali, fallimenti di colossi bancari, tassi di interesse sproporzionati, spread e fiducia nei mercati sono “slogan” e ridondanti informazioni ampliamente invasive cui ci siamo abituati e che, per la maggior parte di noi, indicano situazioni fumose e di oscura interpretazione. E forse proprio spingendo sul parossismo del gioco teatrale, mostrato a vista, e sull’assurda fiducia della variegata comunità coinvolta nel piano del Marchese Parascandolo, si può, con la scanzonata e creativa adesione degli attori e in un clima popolare e festoso, relativizzare il potere dei “quattrini”, valore-totem indiscusso, che tutto muove oggi come allora.